Perchè non perdere la Messa per Rossini

Diciamola tutta: Rossini e Verdi non si sono davvero amati. Stima e rispetto sì; da parte del più giovane Verdi, anche ammirazione e studio; Rossini dal canto suo sapeva apprezzare un successo inarrestabile come quello di Verdi, cui chiese tra l’altro due arie (da inserire in Ernani e Attila) per il suo protetto tenore Nicola Ivanoff, oltre a riceverlo come ospite, ed eseguirlo, nelle sue serate parigine. Ma caratteri e vicende umane li separavano. Il Verdi risorgimentale e il Rossini retrivo sono entrambe forzature, ma utili a misurare la distanza tra i due (quantomeno anagrafica). Peraltro la pubblicistica dell’epoca, sempre alla ricerca del pettegolezzo, sparse a piene mani giudizi poco lusinghieri (esagerati o falsi, chissà) di un Rossini ormai a riposo nei confronti dei contemporanei, Verdi compreso.

Ci si mise anche un ministro della neonata – da sette anni – Italia a far infuriare Verdi scrivendo a Rossini, più o meno, che l’opera italiana era morta (Verdi – per dirne una – aveva da poco composto Don Carlos!). Eppure appena Rossini morì il 13 novembre 1868 Verdi pensò subito a quella Italia ancora in cerca di identità: Rossini «era la riputazione la più estesa, la più popolare dell’epoca nostra, ed era gloria italiana!», e questa reputazione meritava un’iniziativa in cui l’arte italiana facesse prova di unità, di generosità, di vitalità. Di qui l’idea, lanciata pubblicamente, di una grande Messa da requiem cui avrebbero dovuto partecipare i maggiori compositori italiani, scelti da una commissione, ognuno per un pezzetto. Da eseguire in San Petronio, a Bologna – vera patria musicale di Rossini – e subito da riporre via; e nessuno, musicisti, impresari, editori, avrebbe dovuto lucrarci.

La cosa più incredibile non è che questo progetto, alla fine, sia fallito, ma che abbia rischiato di riuscire, e anzi sia arrivato agli ultimi cento metri. La commissione fu messa in piedi, i compositori scelti e solo due (Mercadante per motivi di salute, Petrella all’ultimo momento) diedero forfait. Il direttore era stato trovato. I tempi ristretti non impedirono ai tredici maestri di ultimare il lavoro, tant’è che oggi è possibile un’esecuzione integrale della Messa. Ma, come era inevitabile, lo sforzo economico necessario a qualunque produzione, operistica o comunque contemplante ampie masse strumentali vocali e corali, con buona pace di chi pensa che l’arte possa autofinanziarsi, fu fatale all’impresa. Rischiava di essere fatale all’impresa, nel senso stretto dell’impresario Scalaberni del Teatro Comunale di Bologna che avrebbe dovuto fornire gli esecutori, probabilmente rimettendoci. Scalaberni fiutò il rischio e accampò scuse. Inceppato l’ingranaggio non ci fu modo di rimetterlo in moto e politica e giornali cominciarono una ridda di accuse incrociate. L’evento del primo anniversario della morte di Rossini passò, sepolto dalle polemiche, e con esso tramontò anche la Messa per Rossini. Che però sopravvisse, e, almeno per quanto riguarda Verdi, sopravvisse spettacolarmente nel Libera me e nel Dies irae che ancor oggi illustrano la Messa da requiem scritta per l’anniversario della morte di Manzoni (1874), stavolta composta dal solo Verdi e diventata un grande successo, anche commerciale.

Tredici maestri… viene in mente la frase scherzosa rivolta al «buon Dio» apposta da Rossini come intestazione alla Petite messe solennelle, nel prescrivere il numero di dodici cantanti, quanti gli apostoli, auspicando che non ci fosse tra loro un Giuda. Chissà quante «risatine alla rossiniana» (come le descriveva un grande impresario, Barbaja) si sarà fatto vedendo agitarsi in suo nome tutti quegli umani, un po’ come nel Finale Primo dell’Italiana in Algeri, nella loro “follia disorganizzata”.

Di questi maestri i nomi sono per la maggior parte ormai perduti al grande pubblico. Chi si ricorda di Mabellini o di Boucheron? Eppure tutti costoro, in un momento della loro vita, avevano ricevuto applausi e riconoscimento. La Messa, nelle intenzioni di Verdi, non poteva e non doveva essere un lavoro unitario ma la testimonianza di un’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», per dirla proprio con Manzoni. Ma l’Italia aveva portato tutti i difetti degli italiani nel nuovo stato: campanilismo, litigiosità, spirito di parte. I difetti ma anche i pregi che però, ahinoi, non possiamo accettare senza il loro opposto: una stessa cultura aveva fatto fallire l’impresa e generato i Verdi e i Rossini che ancora oggi – con profitto! – popolano i teatri di tutto il mondo. L’opportunità di ascoltare questo ritratto di famiglia, tolto dagli scaffali e rimesso nel nostro spazio sonoro nella seconda metà del secolo scorso, sotto gli auspici dell’Istituto nazionale di studi verdiani, è imperdibile: sia per le nostre orecchie che per le nostre riflessioni di italiani. Se Bologna “tradì” Rossini, Pesaro lo abbraccerà una volta di più il 22 agosto, con musica che se Rossini non scrisse aveva contribuito più di ogni altro ad alimentare, anche dopo la sua scomparsa.

Daniele Carnini

Pubblicata il : 26 Luglio 2025