L’intervista del mese

18 Aprile 2024
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Ci racconti le tue esperienze professionali prima dell’ingresso al ROF?

Ho iniziato a lavorare intorno a carte e a libri fin dall’inizio dell’università a Bologna, dopo il classico urbinate, prima ancora della laurea in Lettere moderne, sezione filologica, con tesi in Storia del libro e delle biblioteche. Studi che poi ho continuato alla Scuola speciale per archivisti e bibliotecari della Sapienza, con una ricerca finale in Storia delle biblioteche confluita nella monografia Il libro in Benedetto XIV.
Ricordo di aver chiuso nove posizioni professionali quando mi sono trasferita qui, nel marzo 1994. Avevo lavorato tanti anni in libreria e stavo collaborando con varie case editrici, con mansioni differenziate, dalla redazione alla lettura di testi settoriali, da ricerche iconografiche a indici dei nomi e analitici, da trascrizioni di manoscritti soprattutto di età moderna alle immancabili bozze, mentre insegnavo un po’ e per vari autori facevo indagini bibliografiche e scrivevo, in ombra, approntando le trame dei loro saggi. Passavo molte giornate in biblioteche e archivi, mi sono sempre sentita bene in quei templi ovattati. Nel tempo ho continuato a fare le stesse cose, con fisiologiche evoluzioni, dalle docenze universitarie di Conservazione e restauro dei beni cartacei o di Editoria teatrale alla catalogazione di fondi, fino alla passione per la grafologia e la linguistica forense, quindi al conseguimento di master in Criminologia per ampliarne gli orizzonti applicativi. Sempre carta e scrittura.

 Qual è stato il tuo primo contatto con il Festival?

Ho salito le scale del Festival nella primavera del 1993, come consulente dell’agenzia Emilia Romagna di Franco Maria Ricci editore, per cui curavo le biblioteche e presentavo progetti editoriali a enti culturali. Stavo già cercando lavoro in questa zona per motivi famigliari, mai avrei immaginato di trovarlo a Pesaro. Da Monte Cerignone, il mio paese del Montefeltro, sono frequentate altre città della costa, più vicine. Dopo un piacevole incontro con i dirigenti del Festival ho inviato il curriculum, favorevolmente accolto anche per la concomitanza con una fase di sviluppo gestionale che prevedeva l’arrivo di alcune nuove figure nell’organigramma del Festival.

 Sei responsabile dell’Ufficio edizioni e Archivio storico. Ci racconti in cosa consiste il tuo lavoro?

Nella curatela del materiale editoriale di corredo a ogni fase e a ogni ufficio del Festival: intestati, programmi, manifesti, bilancio sociale e via di seguito fino alle locandine con i nominativi di tutte le maestranze afferenti a una produzione o ai cataloghi di mostre, in interrelazione con i superiori e in dialogo con ogni collega coinvolto, filtrando allo studio grafico le diverse istanze e dipanando le adempienze, anche amministrative, relative a scelta della tipografia, acquisto della carta, messa in esercizio del banco di vendita nelle sere di spettacolo. In definitiva, di ogni oggetto cartaceo stampato dal Festival mi trovo ad essere il primo capo e l’ultimo facchino. Il Festival in rete non rientra nelle mie competenze, e meno male: anche per età, ho scarsa affinità con il silicio e con la comunicazione in ambito digitale. 
I programmi di sala sono le pubblicazioni più complesse: i libretti da collazionare sulle edizioni critiche, i saggi con le relative revisioni e traduzioni, le illustrazioni di copertina, gli impianti iconografici storici, la selezione di bozzetti e figurini, gli apparati preliminari, le parti dedicate agli sponsor, le inserzioni pubblicitarie… Insomma, le fila da tirare per andare in stampa quando è ora – non sono ammesse deroghe – sono parecchie e tante pagine dipendono da altri uffici. Approdare a un livello accettabile di correttezza e armonia richiede non poche ore di scrivania; aumentare anche solo di poco quel livello amplifica l’impegno in via esponenziale. Si fa come si può, al meglio, senza perdere di vista il conto a gambero sul calendario. Siamo un festival, tanto lavoro si condensa in periodi ristretti. 
Eppure, una volta terminati gli aggiustamenti suggeriti dai lettori istituzionali, in costante relazione con la consulenza scientifica della Fondazione Rossini, il lavoro editoriale sui testi è solo mio. Dare occhi e voce a una scrittura, accompagnarla alla pubblicazione esige un’attenzione generosa, che ripaga collocandoti in un tempo-spazio intento e pieno, vulcanico e mercuriale, nell’andirivieni tra la focalizzazione del particolare – parola, frase o paragrafo che sia – e il contesto più ampio, sia a livello di contenuti che di aggiustamenti redazionali. Uno stato di centratura, di quasi allerta che calamitando tutto distende e riposa. Un po’ come quando un musicista, dopo ore e ore al pianoforte, torna nel mondo e guarda l’orologio: è stato immerso altrove e ha perso ogni cognizione, semplicemente. 
C’è un altro aspetto che mi appaga profondamente in questo mestiere. Occuparsi di testi scritti da altri, ‘curarli’, consente di entrare in risonanza speciale nel rispecchiamento tra scrittura e autore. La scrittura è un’espressione altamente individuale e analizzarla diventa una chiave di conoscenza che si affina con l’esperienza e nell’esperienza trova continue conferme. Questo vale non solo per autori conosciuti, di cui si possono prevedere scelte terminologiche, vezzi e sviste: un certo sguardo sulla scrittura è strumento che rivela tanto anche dell’estensore di una email o di una comunicazione professionale condizionata da lessico specialistico e formule idiomatiche. È un gioco per me seducente, che trova campo solo nel mondo delle parole: il nostro Archivio storico, principalmente fotografico, è la storia per immagini del Festival, da vagliare per richieste interne e esterne, e non offre, sotto questo profilo, le medesime opportunità.

 Qual è il ricordo che ti è più caro della tua esperienza al ROF?

Ripenso con nostalgia ai primi tempi, alle persone che mi hanno presa per mano e guidata nel lavoro o a vedere il retropalcoscenico. A quello che ho imparato della lirica assistendo alle prove a fianco di musicisti, cantanti, registi, scenografi, costumisti. 
Certo, ci sono state occasioni di gratificazione, situazioni risolte per miracolo, ma anche momenti di delusione e sconforto, e non parlo solo di cadute su refusi che mi fanno ancora arrossire o alla fatica degli anni in cui testi e traduzioni arrivavano manoscritti per posta o fax, magari scritti in treno. I floppy disk erano già un lusso. 
Ho conosciuto la musica, il teatro, ho incontrato tante persone. L’amore e la dedizione per Rossini che superano ogni contingenza, fare tutto il possibile poi qualcosa di più, trasformare il tempo, finanche il corpo, in una variabile trascurabile grazie alla concentrazione, il rispetto imperativo dei testi, le soluzioni eleganti condite da colta ironia, la disponibilità aperta e operativamente preziosa, il valore della fiducia: queste le cose care che mi restano da dirigenti, presidenti, consulenti e collaboratori editoriali, autori, traduttori, grafici, tipografi, fotografi, collezionisti, appassionati, musicisti e maestri.