Guillaume Tell in streaming “Ma quale tenore per Arnold?”
Lo streaming sarà disponibile su OperaVision dalle 19:00 del 7 aprile.
Ma quale tenore per Arnold?
Attorno al Guillaume Tell si è scritta una storia importante della vocalità tenorile, fra leggenda e realtà. Per riassumerla in poche righe, basta leggere quanto scriveva trent’anni fa un esperto di voci quale fu Rodolfo Celletti: «Dopo il Sol3 Nourrit usava con grande perizia il falsettone e con questo tipo di fonazione eseguì tutte le pagine e le frasi del Guglielmo Tell che noi oggi siamo assuefatti ad udire da tenori che cantano con piglio eroico e voce stentorea, emettendo tutti gli acuti “di petto”, compreso il Do4. Fu proprio nel Guglielmo Tell che un altro cantante francese, Duprez, acerrimo rivale di Nourrit, introdusse con enorme successo il cosiddetto “Do di petto”, nota che per tutto il periodo romantico contribuì in maniera decisiva a creare il mito del tenore».1
Questo è quanto si legge comunemente in enciclopedie, storie dell’opera e testi divulgativi d’ogni genere. In assenza di registrazioni sonore che documentino la reale qualità d’emissione di Adolphe Nourrit, primo interprete di Arnold nel 1829, e quella di Louis-Gilbert Duprez, sorta di ricreatore del personaggio a dieci anni di distanza, non possiamo che rivolgerci alle fonti verbali pervenuteci dal passato e alle poche certezze sulla fisiologia umana che oggi possediamo. Ed ecco dunque i fatti.
1) Il cosiddetto “Do di petto” non esiste, nel senso che non può fisiologicamente esistere, così come non può esistere il “Si di petto” o il “Sib di petto”: la salita agli acuti estremi senza applicare il cosiddetto “passaggio di registro” (in termini foniatrici: il passaggio dal “registro modale con consonanza di petto” impiegato per le note medio-gravi al “registro modale con consonanza di testa” adottato per quelle acute) è infatti umanamente impossibile, come ben sanno quegli stessi tenori che pur sbandierano a parole i loro presunti “Do di petto”, ma che come tutti i colleghi “girano” per forza di cose la voce fra il Mi e il Sol acuti, a scanso di un inevitabile break vocale.2
2) Non v’è traccia documentaria di una presunta rivoluzione tecnica attuata da Duprez neppure nel trattato di canto scritto e pubblicato da Duprez stesso, che anzi prescrive, come tutti i trattatisti prima di lui, appositi esercizi «per far che gli allievi imparino a passare con garbo dalla voce di petto [per le note gravi: Do2-Do3] alla voce mista [per le note centrali: Do3-Sol3], e dalla mista alla voce di testa [per le note acute: Sol3-Do4]».3 A livello della laringe, dove hanno sede le corde vocali, il meccanismo basilare di produzione del suono non doveva quindi essere sostanzialmente diverso fra Duprez e Nourrit, né pare verosimile che Nourrit usasse il registro di falsetto (per quanto rinforzato in un sedicente “falsettone” di cui non v’è comunque traccia fra i documenti dell’epoca) per emettere le note acute e solo quelle, costellando così il suo normale canto tenorile con sporadici suoni assimilabili a quelli prodotti dai moderni controtenori che tentano di ricreare la vocalità degli antichi castrati.
3) È altresì vero che Duprez e altri tenori adottarono nel corso degli anni ’30 un iscurimento artificioso della voce prodotto non al livello della laringe (dove la voce si forma in base al registro vocale attivato dalle corde), ma al livello della faringe (dove il suono emesso dalle corde viene amplificato e “timbrato” in base alla conformazione e all’atteggiamento interno della bocca). Grazie a un inarcamento inusitato del palato molle e a un abbassamento forzato della radice della lingua, la cavità di risonanza congegnata all’interno della bocca si ampliava fino a raggiungere dimensione e conformazione tali da imprimere alla voce un colore scuro (voix sombrée) perfettamente in linea con la nuova voga romantica del tenore “tenebroso”, nonché un volume di suono amplificato che ben si conciliava con la scrittura orchestrale dell’epoca, sempre più massiccia. Se spinto all’esagerazione, l’effetto veniva comunque stigmatizzato dai critici più sensibili, per la conseguente perdita di chiarezza nella dizione e nell’articolazione delle note, ridotte a un indistinto magma di suoni cavernosi: ricordando Domenico Donzelli, già tenore rossiniano, nel Bravo di Mercadante (Scala 1839), Alberto Mazzucato denuncia che invece di «Par che un nemico Iddio m’abbia sul petto nell’ira sua questo pugnal cacciato», si udiva qualcosa di simile a «Por che un nemico Iddiho m’obbio sul pettmuo nell’iro suo questo pugniol cocciotmuo», proprio a causa della nuova fonazione adottata.4
4) All’inedito effetto vocale si affiancava in Duprez e in altri tenori un’esagerazione nel gesto e nell’espressione che portava a compimento l’ingigantimento drammatico del personaggio. Così appunta nelle sue memorie il cantante Gustave Roger, dopo aver udito il collega nell’Otello rossiniano: «Duprez ci ha elettrizzati. Quale coraggio! Quale passione! È un leone che ruggisce! Come getta le sue viscere in faccia al pubblico! Giacché non sono più delle note quelle che udiamo, ma l’esplosione d’un petto schiacciato dal piede di un elefante: è il suo sangue, è la sua vita ch’egli spinge fuori dal suo corpo per strappare al pubblico quell’applauso che i Romani accordavano al gladiatore morente».5 Ogni aspetto dell’esecuzione sembrava quindi amplificato, al limite dell’esagerazione.
5) Tutto questo doveva avere ben poco a che fare con il modo di cantare e di atteggiarsi di Nourrit, primo interprete di Arnold. In mancanza di un confronto sonoro fra le due voci può soccorrerci almeno il confronto visivo fra due celebri rappresentazioni grafiche della loro interpretazione nel Guillaume Tell (qui riprodotte nelle pp. 74 e 80): alla grazia ed eleganza settecentesca dell’uno si contrappone il fuoco quasi scomposto, romanticamente scomposto, dell’altro. Si può obiettare che Nourrit viene ritratto mentre intona un’espressione amorosa («Ah! Mathilde, idole de mon âme!»), mentre Duprez è colto nel pieno del furore patriottico («Amis, amis, secondez ma vengeance»); ma il solo fatto che i rispettivi disegnatori abbiano pensato di ritrarre i due artisti in questo piuttosto che in quel momento del dramma è già significativo della percezione che se ne aveva comunemente.
6) Certo Guillaume Tell – da sempre considerato il testo che ha traghettato definitivamente la storia dell’opera dagli ultimi fasti classicistici (per non dire tardobarocchi) alla nuova estetica romantica – si prestava evidentemente bene anche alla nuova lettura imposta da Duprez, se su tale rilettura crebbe persino il mito di una rivoluzione canora epocale. Ma il personaggio drammatico ideato dai librettisti Jouy e Bis, nonché quello vocale costruitogli sopra da Rossini, guardava verso altri modelli. Per tutta l’opera Arnold non si mostra affatto né un patriota né un rivoluzionario, ma un sognatore un po’ apatico e qualunquista, che a fatica Tell riesce a smuovere; solo in estremo – e più per vendicare la morte del padre che per riscattare la patria – verrà assalito da un improvviso moto di rivalsa contro il nemico. Similmente, per tre atti su quattro la vocalità di Arnold si barcamena in gran parte fra toni elegiaci e toni patetici, acquistando la tinta eroica solo nella cabaletta conclusiva della grande aria posta a ridosso del finale. Non si dimentichi che l’interprete di riferimento in fase di composizione era quel medesimo Nourrit che furoreggiava a Parigi quale Orfeo nella revisione francese dell’opera di Gluck (una parte acutissima, da haute-contre, pensata cioè senza acuti sfogati e di forza, ma sempre morbidi e “raccolti”); Nourrit era anche l’interprete per il quale Rossini aveva già scritto la parte titolare del Comte Ory, di natura brillante e leggera, così diversa dall’immagine tragica ed eroica di cui Arnold fu presto caricato. È nondimeno innegabile che, nel corso della composizione, Rossini si sia fatto prendere la mano dal personaggio, giungendo a dipingerlo nel rigurgito patriottico dell’ultimo atto con toni che gli erano estranei nei primi tre e che hanno poi pesantemente condizionato la lettura dell’intera parte vocale. Nelle sue tardive memorie, a sottolineare l’estraneità di quella cabaletta al vecchio metodo di canto, Duprez diffonderà la voce che già dalla seconda recita Nourrit la sopprimesse: i documenti in nostro possesso sembrano smentire la notizia, ma il solo fatto che essa si sia diffusa è significativo per il problema in esame. Viceversa, nel corso delle repliche, Duprez riuscì ad ottenere che la cabaletta eroica venisse trasferita a conclusione dell’opera, deformando così ulteriormente la natura del testo e del personaggio, sospinti verso nuovi orizzonti estetici.
Questi, in breve, i fatti. A dispetto delle intenzioni di Rossini, per buona parte dell’Ottocento e per quasi tutto il Novecento l’immagine canora di Arnold risultò dunque stravolta. Anche in forza della definitiva acquisizione dell’opera al repertorio italiano (per lingua d’esecuzione e stile d’interpretazione), il nuovo Arnoldo fu ben presto considerato il fratello maggiore di Manrico nel Trovatore di Verdi, o perlomeno del Manrico venutosi a consolidare nel corso dei decenni: eroico, tonitruante, sanguigno. Un siffatto approccio a una parte concepita con ben altri intendimenti ha comportato la fama di eccezionalità, quasi di incantabilità del ruolo, giacché affrontare la tessitura acuta da haute-contre con un calibro di voce da tenore drammatico risultava impresa assai ardua, oltre che stilisticamente inopportuna. Già lo stesso Duprez era costretto ad abbassare di tono le frasi più impervie, come dimostrano gli interventi sulle parti d’orchestra tuttora conservate nel museo dell’Opéra.6 Solo la restituzione del personaggio a una vocalità più rossiniana e meno verdiana, solo il ritorno da Arnoldo ad Arnold (in termini di fonazione, la lingua francese aiuta non poco a indirizzare il cantante verso una più idonea posizione della cavità faringea, responsabile del colore vocale), solo una rilettura più elegiaca e meno patriottica del personaggio può garantire un ritorno alle origini, alla concezione iniziale dell’opera.
Guardata con la distanza di quasi venti anni, l’operazione promossa dal Rossini Opera Festival nell’agosto 1995, affidando Arnold al tenore Gregory Kunde, fu l’avvio di un “restauro vocale” che soltanto oggi viene compreso pienamente: ricondotta alla sua reale natura, anche la vocalità di Arnold perde infatti quel carattere di eccezionalità, ai limiti delle possibilità umane, che le era stato attribuito da un approccio sbagliato, recuperando altresì la medesima dimensione vocale che l’accomuna a tante parti tenorili dell’opera francese coeva.
Marco Beghelli
1 Rodolfo Celletti, Storia del belcanto, Fiesole, Discanto, 1983, p. 168.
2 Per ulteriori dettagli, cfr. Marco Beghelli, Il “Do di petto”. Dissacrazione di un mito, «Il Saggiatore musicale», III, n. 1, 1996, pp. 105-149.
3 Gilbert Duprez, L’art du chant, Paris, s.e., [1845]; trad. it.: L’arte del canto, Milano, Ricordi, [1847], p. 6.
4 Alberto Mazzucato, Il vecchio ed il moderno metodo di canto, «Gazzetta musicale di Milano», I, n. 14, 3 aprile 1842, pp. 55-56.
5 Gustave-Hippolyte Roger, Le carnet d’un ténor, Paris, Ollendorf, 1880, pp. 183-184.
6 Per ulteriori dettagli, si rimanda all’Edizione critica delle opere di Gioachino Rossini, sez. I, vol. 39: Guillaume Tell, a cura di M. Elizabeth C. Bartlet, Pesaro, Fondazione Rossini, 1992, p. XLVI.
Pubblicata il : 7 aprile 2020